L’ASTRIL (Associazione Studi e Ricerche Interdisciplinari sul Lavoro) ha organizzato su iniziativa del Prof. S. Fadda un incontro/dibattito presso il Dipartimento di Economia dell’Università Roma Tre sul volume di Pierre Carniti “La risacca: il lavoro senza lavoro” con la partecipazione dell’autore, di docenti universitari e di studenti.
Il contributo allegato offre una riflessione su quanto è emerso dal dibattito.
IL LAVORO SENZA LAVORO SECONDO PIERRE CARNITI
di Giuseppe BIANCHI
L’Associazione ASTRIL (Associazione Studi e Ricerche Interdisciplinari sul Lavoro) ha organizzato il 15 marzo di questo anno un dibattito sul volume di Pierre Carniti “La Risacca: il lavoro senza lavoro” (2013, Ed. Altrimedia) presso il Dipartimento di Economia dell’Università Roma Tre.
Di questo nuovo lavoro di Carniti abbiamo avuto modo di scriverne in una precedente Nota ISRIL (n. 33-2013) per cui ora ci limitiamo a brevi osservazioni sull’incontro.
Il tema è noto: l’ormai strutturale squilibrio fra domanda ed offerta di lavoro all’origine dell’attuale insostenibile disoccupazione.
Carniti conferma una analisi, peraltro largamente condivisa tra i convenuti, che il problema dell’occupazione non è aggredibile con le flessibilità, con gli incentivi e sgravi fiscali al lavoro.
Il restringimento progressivo della base occupazionale è determinato da due eventi strutturali: la raggiunta sazietà della società dei consumi di massa nelle economie avanzate; un progresso tecnico “labor saving” che non alimenta meccanismi compensativi dal lato occupazionale, come avvenuto nelle precedenti fasi tecnologiche.
Come uscirne? Una ipotesi è una redistribuzione del reddito che corregga le attuali disuguaglianze sociali che non solo contraddicono l’equità ma rallentano i processi di sviluppo sottraendo la partecipazione di segmenti vitali della popolazione. Lasciando da parte ogni considerazione in ordine all’efficacia dei possibili interventi in tale materia, a livello di singolo paese, date le caratteristiche globali della nuova economia finanziaria, il quesito dubitativo è se tale pur auspicabile correzione, in nome di una maggiore giustizia sociale, sia di per sé sufficiente a rimettere in moto la macchina della produzione e soprattutto dell’occupazione nelle condizioni date di squilibrio fra crescita della produttività e crescita dei consumi.
Un’altra ipotesi presuppone la redistribuzione del lavoro tenendo conto di come le nuove tecnologie mettono a disposizione il tempo liberato dai processi produttivi.
Come utilizzare tale tempo? Una soluzione è quella a vantaggio dei lavoratori occupati riattivando la compensazione produttività/orari, come avvenuto nel passato, nel corso di un processo storico che ha creato condizioni di “favore al lavoro” tradotte nel rafforzamento della sua rappresentanza collettiva.
Situazione ben diversa dall’attuale ove la riduzione degli orari di lavoro viene utilizzata per contenere gli esuberi (contratti di solidarietà) e dove disoccupazione, entro certi limiti, è considerata come un “accidente” necessario per la crescita della nuova economia globalizzata.
Un’altra soluzione privilegia la collettività dei lavoratori e prefigura “una uscita dall’attuale modello lavoro-produzione-consumo tipico della società industriale” (P. Carniti).
Si presuppone il rafforzamento di una economia solidale (già in embrione) in cui lo Stato utilizza il dividendo della maggiore produttività incentivando e finanziando forme di azione collettiva (cooperative, imprese sociali) che producono beni di utilità pubblica. Il dato di partenza è che esiste una larga domanda insoddisfatta nel campo della salute, dell’istruzione, dei servizi alla persona, della valorizzazione dei beni culturali ed ambientali che l’attuale costosa macchina dello Stato non riesce a soddisfare soprattutto a vantaggio dei ceti sociali più deboli, posti alla periferia del sistema. Una vasta terra di nessuno, non appetibile ai privati né presidiata dallo Stato, che può essere recuperata all’iniziativa economica solidale a vantaggio di una nuova occupazione e a correzione delle disuguaglianze prodotte dallo stesso Stato sociale.
Ma c’è un altro campo di sperimentazione per formule imprenditoriali innovative a vantaggio di un ceto medio non tanto povero da rivolgersi alla gratuità pelosa dello Stato né tanto ricco da accedere all’offerta privata.
Ciò che sta nascendo è un “low cost” sociale, cioè imprese privato collettive che avvalendosi di strumenti finanziari già operanti nel mercato dei capitali (social bond, fondi “venture capital sociale”) forniscono prestazioni sanitarie non coperte dallo Stato (cure dentistiche), servizi agli anziani, asili nido ed altro, a costi particolarmodo vantaggiosi (30%-40% inferiori a quelli di mercato), in virtù di modelli organizzativi flessibili e di più efficaci forme di utilizzo delle costose strumentazioni tecniche. Progetti di welfare sostenuti dai contributi della società civile (banche, sindacati, singoli cittadini) attraverso la costituzione di “fondi di scopo” con cui avviare nuove imprese in grado di autosostenersi nel mercato, superata la fare di avvio.
La conclusione è che se vogliamo uscire dalle attuali strettoie occupazionali e correggere le attuali disuguaglianze sociali dobbiamo allargare la dimensione del mercato, includendo nuovi soggetti economici, che pur non perseguendo il profitto, sono in grado di produrre ricchezza ed occupazione, soprattutto rivolta alla fasce giovanili più scolarizzate.
Un mercato poco conosciuto ma vitale per le sue prospettive di crescita che va organizzato e stimolato con regolazioni appropriate come qualsiasi altro mercato.