LA PREFAZIONE DIGad Lerner al libro di Pierre Carniti, “Dove stiamo andando? Democrazia e lavoro nell’età dell’incertezza”
Non c’è niente da fare: Pierre Carniti era, è, resterà per sempre un sindacalista. Anzi, “Il sindacalista d’assalto” come recita il titolo di una sua biografia pubblicata nel lontano 1976, quando non aveva ancora compiuto quarant’anni, a firma di Claudio Torneo per le edizioni Sugarco, con una bella prefazione di Walter Tobagi. Non è affatto una diminutio sottolinearlo. Al contrario, è l’omaggio più sincero che mi sento di rivolgere a una personalità straordinaria,
per certi versi unica nella storia del movimento dei lavoratori italiani. Un autodidatta di umili origini che ha saputo far tesoro dell’esperienza maturata fin da ragazzo nel mondo degli svantaggiati che attraverso l’organizzazione e la lotta per affermare i propri diritti hanno conseguito non solo un maggior grado di benessere economico e sociale, ma anche dignità e consapevolezza culturale. Ricordo di avere letto all’epoca questa biografia alla quale Carniti
non volle collaborare, perché di carattere schivo e renitente al narcisismo, sviluppando nei suoi confronti un’affettuosa ammirazione che non è mai venuta meno. Negli anni precedenti all’uscita di quel libro le sedi della Fim Cisl erano stati luoghi ospitali e istruttivi per noi studentelli che cercavamo l’incontro più autentico con la comunità operaia e la vita di fabbrica. Lì, senza il filtro dell’ideologia, per tanti di noi si realizzò la scoperta preziosa del lavoro
manuale e dei valori di giustizia sociale che ne promanavano. A distanza di tanti anni, Carniti non può immaginare quanto me ne senta ancora debitore a lui, a Bruno Manghi, a Sandro Antoniazzi, a Franco Castrezzati e, perché no, all’”arrabbiato” Piergiorgio Tiboni che poi avrebbe intrapreso un tragitto diverso di sindacalismo dib base. Senza dimenticare Bepi Tomai delle Acli milanesi. Non credo di offenderlo se dico che ha dato il meglio di sé come sindacalista
perché la politica non avrebbe mai potuto diventare un mestiere affine alla sua indole. Me ne diede una dimostrazione straordinaria quando Bettino Craxi, affascinato dal coraggio rivelato da Carniti nella rottura con la Cgil sul punto unico di contingenza, pensò di ricompensarlo facendolo nominare presidente della Rai. L’equivoco durò pochi giorni: non appena soppesate le condizioni lottizzatorie cui avrebbe dovuto soggiacere, Carniti fu lesto a rassegnare le
dimissioni. Quel “duro” mi piaceva quando rivelava la sua tempra, l’assenza di complessi di inferiorità nei confronti dei potenti con cui doveva trattare. In anni più recenti, quando il mio lavoro mi portò a conoscere vari esponenti della classe imprenditoriale italiana, fu un piacere ma non una sorpresa ascoltare dalla loro viva voce il riconoscimento più bello: non avevano mai incontrato né prima né dopo un negoziatore così abile e snervante, capace di inchiodarli al tavolo
per nottate intere, per poi sorprenderli con smarcamenti, lotta dura, compromessi, nuovi scenari inaspettati. Sempre e solo guardando agli interessi del lavoro dipendente di cui avvertiva la rappresentanza come un dovere assoluto. Lo ha aiutato in questo percorso una concezione originale e nobile della funzione autonoma dell’organizzazione sindacale, controparte non solo degli imprenditori ma anche della politica tradizionale e quindi del sistema politico. In taluni passaggi il sindacato poteva essere costretto ad assecondare delle inevitabili ritirate, pagare anche il prezzo di spaccature al suo interno, determinate per lo più
da interessi di partito, sempre però ricercando l’unità del mondo del lavoro. Perché il sindacalista Carniti non era semplicemente astuto: in sintesi, lo definirei uno studioso dei rapporti di forza dotato di visione strategica dei cicli economici. In lui la tattica è sempre stata al servizio della strategia. Per questo credo che abbia vissuto come una tragedia storica l’occasione mancata dell’unità sindacale, un ripiegamento che i lavoratori italiani stanno ancora pagando duramente.
Perché in una società complessa come la nostra è evidente che la miopia dei gruppi dirigenti confederali, nell’illusione di saper giocare di sponda con le dinamiche conflittuali della politica, ha finito per favorire l’imponente smottamento di quote crescenti di ricchezza nazionale dal lavoro ai profitti e alle rendite. L’acuirsi abnorme delle disuguaglianze di reddito, cui è dedicato il primo saggio di questa raccolta, rappresenta l’esito non scontato ma bruciante di questa occasione perduta. Ricordo che negli anni ruggenti seguiti all’”autunno caldo” del 1969 Carniti veniva apostrofato con un epiteto dispregiativo che
suppongo gli suonasse come un complimento: pansindacalista. Anche la sinistra che a parole, ma non nei fatti, aveva ripudiato la teoria della “cinghia di trasmissione” con cui il sindacato doveva rimanere assoggettato alla visione “superiore” del partito, respingeva come scandalosa l’idea di un’organizzazione dei lavoratori votata a esprimere in proprio una visione della società che andava oltre la tutela degli interessi. Così, all’accusa di pansindacalismo si accoppiava
volentieri quella di spontaneismo. Dove pensate di andare voialtri, da soli, senza una guida dall’alto di chi sa muoversi nelle istituzioni? Il risultato di questa scomunica è sotto gli occhi di tutti. Dapprima si è incrinata la capacità di rappresentanza democratica del mondo del lavoro, e quindi la sua forza contrattuale; per poi rimettere in discussione lo stesso valore della concertazione, sottraendo alle forze sociali lo spazio naturale di formulazione delle regole entro
cui esprimersi liberamente, senza che né il governo né i partiti fossero in grado di realizzare una degna supplenza su terreni che non gli sono propri. Neanche in questo libro Carniti si rassegna al distacco dello studioso. Non rinuncia alla sua militanza per la giustizia sociale, quando si misura con le dimensioni di una crisi globale nella quale il lavoro diviene sempre più precario, subalterno al primato della finanza e al ricatto del debito, fino a rimettere in discussione i fondamenti della democrazia economica e perfino alcuni principi di cittadinanza. Lo soccorrono in questa riflessione gli strumenti culturali appresi fin dalla Scuola Cisl di Firenze, dove giunse ventenne dalla bassa cremonese: lo studio, cioè, delle relazioni industriali, dell’organizzazione del lavoro e delle dinamiche dell’economia internazionale, approfondito senza il filtro di un’ideologia falsamente messianica in cui la Classe viene idealizzata per ridurla nei fatti a strumento di lotta per il potere politico. All’epoca veniva guardata con sospetto la sociologia del lavoro d’impronta anglo-sassone introdotta in Italia da studiosi non marxisti, fatta propria dalla generazione di Carniti. Ma oggi constatiamo che proprio loro – capaci all’epoca di fornire un orizzonte culturale e organizzativo alle nuove leve del lavoro non più imperniato nelle gerarchie tradizionali dei mestieri – hanno tenuto vivi quei valori calpestati dal senso comune dominante, che la sinistra per subalternità e timidezza non ha saputo difendere. Tra questi valori, ne cito uno per tutti: l’egualitarismo. Il pensiero
dominante ne ha tracciato caricature grossolane, quasi che il principio fondamentale dell’aspirazione all’uguaglianza comportasse la mortificazione delle professionalità, la negazione del merito, l’appiattimento salariale, l’istigazione all’ozio. L’esito è sotto gli occhi di tutti: nessuno potrebbe decentemente sostenere che le scandalose disuguaglianze da cui è lacerato il mondo del lavoro, siano il frutto di una leale competizione dei talenti, né tanto meno corrispondano alla tanto richiamata meritocrazia. Concedetemi infine un attimo di cedimento sentimentale, che rimanga come attestato di gratitudine anche se so che Pierre Carniti ne farebbe più che volentieri a meno. Ancor oggi udire la sua voce arrochita dai troppi sigari toscani suscita in me il ricordo emozionato
di comizi bellissimi nella nebbia padana, circondato da migliaia di tute blu con le quali si misurava alla pari, senza bisogno di indulgere alla demagogia, anzi, pronto a riversargli addosso pure le verità scomode; perché non occorreva il filtro di un partito per garantire la confidenza fra il rappresentante e i rappresentati, fatti della stessa pasta.